Bologna, 12 novembre 1989. Domenica.

Anniversario della Battaglia di Porta Lame.

Sala Comunale del quartiere Bolognina.

Achille Occhetto, segretario del Partito Comunista Italiano, P.C.I., annuncia l’ipotesi di cambiare nome al partito. Il suo è un brevissimo discorso di circostanza, sette minuti in tutto. Sono però sette minuti di fuoco: passeranno alla cronaca come la “Svolta della Bolognina”.

Sarà l’inizio dell’eutanasia del PCI, uno dei più importanti storici partiti d’Italia. Amato-odiato protagonista di momenti terribili, portatore di progresso, veicolo possibile di stalinismo, cofondatore dell’Italia democratica e della sua libertaria Costituzione.

L’annuncio di Occhetto non è proprio una sorpresa per i vecchi partigiani ed i giovani operai presenti. Da qualche anno se ne parla, si ipotizza. In generale se ne rifiuta vigorosamente l’ipotesi

Ma la Storia talvolta corre. Si lancia e l’individuo deve decidere se farsi travolgere o cercare di assecondarla o, difficile esercizio, di controllarla.

È un anno magmatico il 1989. Un anno cominciato e finito con la fine del comunismo in quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale, culminato con l’abbattimento del Muro di Berlino.

Occhetto decide di controllarla. Ci prova. Così, a sorpresa, pronuncia un discorso. Da quella domenica di novembre ha inizio lo scioglimento di uno dei più organizzati e granitici partiti comunisti del mondo. È dotato di una organizzazione senza paragone, più efficiente ed onesta di quella d’ogni altro partito ed è diretto da una dirigenza ambiziosa, onesta, qualificata. Fortissimo è il sentimento di “appartenenza”, una sorta di patriottismo di partito, espressione di una base fortemente ideologizzata.

In realtà il PCI è in crisi elettorale almeno dalla morte del suo carismatico segretario Enrico Berlinguer, avvenuta nel 1984. Dal 34% dei voti è sceso al 28%. La crisi politica ad Est, il rinnovato benessere economico occidentale, sono terremoti per la sua credibilità.

Si cerca, si ipotizza un tentativo di superamento della crisi ideologica e storica.

L’agonia del partito, discretamente iniziata alla Bolognina, durerà sedici mesi. Ci saranno sconfitte elettorali, dibattiti interni e manovre di corridoio, polemiche aspre, discussioni filosofiche, accuse e contraccuse, persino qualche autocritica…

Infine, tra molte lacrime, qualche applauso e molta fredda burocrazia interna, il nome e bandiera di uno dei movimenti politici che da primattore avevano fatto la storia d’Italia, vengono ammainati, posti in un museo. La Svolta ha portato alla “Cosa”, come viene rapidamente denominato il processo d’eutanasia del partito. La “Cosa” si concluderà il 3 febbraio 1991 a Rimini e sarà PDS.

La confusione era schiacciante tra la stragrande maggioranza di quelli che allora si chiamavan tra loro “compagni”. Si voleva credere ad un nuovo e miglior rinascimento dell’Ideale di Giustizia sociale. Chi partecipò a quei sedici mesi di dibattiti e lotte se lo ricorda: il pensiero frequente tra i presenti era “Quanti compagni erano morti per arrivare ad un giorno come quello? Quanti erano stati in prigione? Quanti fucilati? Quanti avevano stentato la vita, erano stati torturati? Quanti avevano consumato tutte le energie nella lotta per un sogno… Il sogno di una Umanità libera dal bisogno, felice nell’unità dei lavoratori, o, come dicevano quelli della Concorrenza “l’unità degli uomini di buona volontà.” Comunque, conclamanti il trionfo dell’Uomo Nuovo, della Società giusta, dell’Utopia realizzata, del sogno della pace perpetua e dell’abbondanza per tutti, ma proprio per tutti. Un mondo di eguali, un mondo in cui ognuno avrebbe dato quel che le proprie possibilità consentivano ed avrebbe ricevuto quel che i propri (onesti) bisogni avrebbero reclamato.”

I compagni, si vedevano sventolare un’immensa bandiera rossa davanti agli occhi.

Ricordavano i film sovietici sulla Rivoluzione. Sentivano nella mente i canti partigiani con cui si erano dati animo mentre combattevano i fascisti e l’invasore.

Immagini, canti, film, foto, discussioni in squallide stanze di partito, in commemorazioni di piazza, in presidi di fabbriche occupate… Il pensiero annegava, faticava a riconoscere la nuova realtà, l’addio all’Utopia.  

“Traditori!”. Il ritratto di Lenin pareva urlare dalla cornice.

Spiegava tutto le sinuose giustificazioni degli oratori favorevoli alla “Cosa”.:

<< Compagni! I tempi sono cambiati e dobbiamo cambiare anche noi! >>

E pareva d’avere attorno gli ottusi trinariciuti di Guareschi.

Eppure, lo stesso Berlinguer nel 1975 aveva detto:

<< Mi sento più sicuro sotto l’ombrello della NATO. >>

Era risuonata come una grande bestemmia, spiegata poi ufficiosamente, come una diplomatica alzata di bandiera bianca per chiedere grazia ai politici americani ed ai loro generali. C’era forte e ben fondato il timore d’un colpo di Stato in stile cileno per schiacciare l’apparente infinito successo elettorale del PCI.

Allora c’era forte la necessità di non essere confusi con gli extraparlamentari comunisti, di poter finalmente partecipare al governo effettivo del Paese. Si era forse evitato un golpe incerto ed una sicura guerra civile, ma la base ne era rimasta scossa, la dirigenza un po’ sfiduciata. Forse la crisi esistenziale del partito era iniziata da lì.

La Svolta della “Cosa” svoltava. Natta, Ingrao, Cossutta si opponevano. Occhetto, D’Alema, Veltroni sostenevano…

<< Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità. >>

Chissà se immaginavano le altre svolte e giravolte del futuro.

Oggi, in quella sala dove Occhetto annunciò l’inizio del cambiamento, c’è un parrucchiere cinese.

Immagine in evidenza da Internet.

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